XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
Chi accoglie voi accoglie me (Mt 10,37-42).
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia
più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue,
non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la
perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me
accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un
profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un
giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo
bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in
verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Chi accoglie voi accoglie me: queste parole di
Gesù, se viste con attenzione, possono essere lette in due modi. Innanzitutto
sono un’indicazione per chi accoglie: è un modo per dire cioè che l’incontro
con Gesù avviene nella chiesa, nella comunità di coloro che testimoniano il suo
vangelo. Ma questo modo di interpretare spesso ha portato a un fraintendimento
da parte di chi dice di rappresentare Gesù: se sono legittimato
dall’istituzione la mia parola non può essere messa in discussione. C’è invece
la seconda possibile interpretazione di queste parole che non devono essere
viste come l’introduzione di quanto segue ma la conclusione di ciò che precede
per cui diventa un monito per l’evangelizzatore: stai attento quando ti
presenti agli altri con la pretesa di annunciare la mia parola, perché nel modo
in cui ti presenti deve trasparire la mia persona, il mio stile: chi accoglie
te deve sentire attraverso te la mia presenza, il mio sguardo, la mia carezza e
la mia misericordia. Ecco perché per portare Gesù agli altri bisogna rinunciare
alla propria pretesa di imporre se stessi e il proprio punto di vista, i propri
pregiudizi. Prima di andare agli altri per portare il vangelo devo farmi
giudicare dal vangelo, devo farmi mettere in discussione da Gesù e abbattere la
mia superbia e il mio egoismo. Devo rinunciare anche alle mie radici culturali
e intellettuali (il padre e la madre rappresentano la mia cultura) e non devo
pretendere di fare degli altri i miei
satelliti, i miei “figli spirituali” ma permettere loro invece di respirare e
agire liberamente in base alla propria esperienza di Gesù Cristo. Devo vincere
cioè la tentazione di sentirmi il centro del mondo e di avere la pretesa di
essere indispensabile per l’efficacia dell’annuncio. Si tratta insomma di
presentarsi non solo come profeta cioè affascinante nell’annuncio e neanche
come giusto, cioè come chi incarna in pienezza il messaggio e pretende di
essere riconosciuto tale e magari anche idolatrato; la cosa più logica è farsi
quindi piccoli, come ha detto un giorno Giovanni il Battista: lui deve crescere
e io diminuire. In tal modo l’unica ricompensa è un bicchiere d’acqua, il
riconoscere, cioè, che non l’altro ha bisogno di me, delle mie parole e dei
miei gesti, ma io ho bisogno dell’altro, perché solo andando disarmato incontro
all’altro capisco che ho accolto veramente la Sua parola.
Don Michele Tartaglia
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